Ebbene sì lo confesso, uno dei motivi che mi ha spinta a fare un viaggio in India è stato lui: il monumento simbolo dell’Asia, l’edificio monumentale più famoso al mondo, una delle ‘nuove’ sette meraviglie, il Taj Mahal. Ma io non voglio parlarvi di questo meraviglioso mausoleo, il web è pieno di articoli che ne descrivono il suggestivo incanto, io voglio raccontarvi come ci sono arrivata, attraverso quali e quante altre bellezze incontrate nel percorso che va da Jaipur ad Agra.
Jaipur, capitale del Rajastan
E’ nota come la ‘Pink City’, per il colore, dal torba al confetto, della maggior parte dei suoi edifici che le dà un fascino unico. Fascino relativamente recente, se si pensa che è dovuto all’operazione di restyling di circa centocinquanta anni fa, voluta da un Maharaja per accogliere il principe di Galles, futuro Edoardo VII. La leggenda vuole che il gentile omaggio all’ospite non era tanto di ordine estetico quanto pratico: il Maharaja non voleva rischiare che la luce riflessa dal bianco dei palazzi, del mezzogiorno indiano, potesse dare fastidio alle pupille del regale visitatore, abituato al grigiore delle lande scozzesi. Intorno al XV secolo, il benessere economico, permette ai signori del Rajasthan di costruire meravigliosi edifici seguendo gli stilemi del momento: influenze musulmane, Hindu e Moghul danno origine all’architettura Rajput. Il palazzo dei venti di Jaipur, l’ Hawa Mahal, ne è un mirabile esempio.
E’ costruito in arenaria rossa e rosa, ed ha una struttura che, con le sue circa mille piccole finestre, ricorda il favo di un alveare. Si dice che per il suo progetto l’architetto si sia ispirato alla corona di Krishna, divinità Hindu cui il Maharaja era molto devoto; certo è che dietro il complesso reticolo c’era la dichiarata intenzione di nascondere agli occhi dei passanti i volti delle donne di corte, consentendo nello stesso tempo a queste reali donzelle di poter curiosare la vita quotidiana della città al di là del merletto di pietra. Molto gentile il regale padrone di casa che, oltre a permettere alle sue cortigiane di esplorare il mondo attraverso una grata ricamata, donava loro refrigerio. Sì, perché le finestre sono state concepite in modo tale da permettere al vento di entrare creando una brezzolina tale da rinfrescare le altrimenti calde stanze… infuocate ovviamente dalla passione ardente per il loro re.
Pochi chilometri da Jaipur (11 circa), su di un promontorio collinare, si erge il palazzo Amber, tanto vanitoso da contemplare la sua bellezza riflessa sul lago sottostante.
Costruito in un luogo strategico, sulla via carovaniera tra Delhi e il Rajasthan, è in realtà una vera e propria città fortezza con una struttura difensiva a quattro livelli, per accedere ai quali bisogna attraversare un portone d’ingresso e un cortile dedicato. Il primo cortile ospitava le parate di vittoria dell’esercito di ritorno dalle battaglie, osservati dalle nobili cortigiane attraverso le grate di pietra ricamata. Proprio perché disposto ad oriente e quindi colpito dai primi raggi del sole, questo primo ingresso viene chiamato Porta del Sole; da qui si susseguono tutta una serie di cortili che trasmettono, per la ricchezza sia delle architetture che dei materiali, una dimensione magica e suggestiva… da mille e una notte. La Porta Ganesh Pol, decorata da preziosi mosaici, ne è un esempio. Attraverso questa porta si arriva al terzo cortile dove si innalzano gli appartamenti privati del Maharaja.
La magia di questo luogo ha inizio già dal percorso per raggiungerlo. E’ consuetudine, infatti, accompagnare i visitatori a dorso di elefante. Questi animali, molto spontaneamente, come tutti gli animali che hanno la fortuna di incontrare nel loro cammino un umanoide, si tingono il volto e la proboscide con tinture rigorosamente testate e quindi anallergiche, per ricreare quella che doveva essere l’entrata a palazzo dei regali nei giorni di festa.
Sempre spontaneamente vi offrono il dorso, noncuranti del vostro peso, e vi conducono per una lunga rampa, in soli circa venti minuti, su in cima… e mentre voi state soffocando per il caldo afoso, loro molto gentilmente non vi faranno pesare lo sforzo, perchè è evidente che non c’è alcuno sforzo per loro. Qualcuno si è permesso di dimostrare preoccupazione sull’abuso da parte degli umanoidi sugli elefanti, (la PETA, People for the ethical treatment of animals, è una di questi), tanto che si è recato personalmente presso l’haathi gaon (villaggio degli elefanti) trovandone qualcuno incatenato con punte dolorose, interpretando come tortura quella che è in realtà una spontanea penitenza con cilicio per chiedere perdono al dio turista nel caso gli avesse recato offesa.
Un centinaio di chilometri da Jaipur, che si percorrono in circa due ore, portano ad Abhaneri.
Abhaneri è un piccolo villaggio noto per il Chand Baori, uno dei pozzi a gradini più profondi del Rajasthan. Questi pozzi, molto comuni nell’India occidentale già dal VI secolo (questo è databile, per alcune fonti, intorno al IX), fungevano da serbatoi di riserva per affrontare l’approvvigionamento idrico nei periodi di siccità.
3500 gradini, dall’ipnotica geometria che tanto avrebbe intrigato Escher, collegavano i 13 piani che portavano ai vari livelli d’acqua. Erano delle straordinarie opere di ingegneria: si scavava il condotto verticale e, ai lati, delle gallerie in pendenza profonde fino a che non si trovava la falda acquifera.In estate i pozzi venivano coperti, e la frescura delle gallerie e delle camere laterali era tale che prendevano una valenza ricreativa: qui le donne -loro era il compito di attingere acqua per il fabbisogno familiare- vi si ritiravano durante la torrida canicola e qui, lontane dalle briglie della cultura patriarcale, potevano liberarsi e giocare, ridere e spettegolare con le amiche, fino a tenere importanti riunioni e cerimonie religiose per ingraziarsi Devi, la Dea Madre, alla quale chiedere sostegno e conforto. L’esigenza di aggregarsi in questi luoghi nei momenti più caldi, nei secoli, ha spinto gli ingegneri a rendere queste strutture sempre più gradevoli con raffinati interventi estetici e architettonici.
In questo minuscolo villaggetto del Rajasthan i turisti si fermano per ammirare questo gioiello, esempio di come l’istinto per la sopravvivenza può generare arte e bellezza, altri per viverne uno più prezioso: la vita vera e autentica di questo popolo… io sono fra questi ultimi e mi sono persa estasiata da quanta armonia sono capaci di generare queste minuscole viuzze. Basta stare fermi in un angolo di strada per assistere ad un pullulare di vita, a un caleidoscopio di colori, all’innata eleganza dei corpi di questa gente…
Qui le donne che portano sul capo, coperto dal lembo di sari giallo, la loro mercanzia, diventano delle cariatidi. Non sento il peso della fatica, l’arrendevolezza ad un destino umile ed umiliante, la remissività ad una cultura che le vede relegate al ruolo di moglie e madre, due ruoli ancora oggi imposti dopo contrattazioni familiari e non scelti per amore… leggo solo un fluttuare di fascinosa bellezza… io mi perdo di fronte a tanta spontanea raffinatezza, è come se queste donne incarnassero quei personaggi delle leggende che la loro tradizione religiosa tramanda da secoli, quelle figure che emergono dai bassorilievi dei loro templi, guardare queste donne è come assistere alla ‘danza del pensiero in azione’.
Rimettiamoci in marcia; mancano 160 chilometri da compiere in circa tre comode ore per raggiungere la meta… ma sul tragitto, a 35 chilometri da Agra, c’è una tappa molto interessante da fare prima di raggiungere il Taj Mahal: è il sito di Fatehpur Sikri, da tutti soprannominato la città fantasma… io preferisco chiamarla la città bambina.
L’ho soprannominata così perchè è vissuta solo 14 anni. Fu capitale dell’impero Moghul tra il 1572 e il 1585 ,durante il regno dell’imperatore Akbar, e come tutto qui in India, anche questa città ha la sua leggenda, qui infatti, l’imperatore disperato per non aver avuto un figlio da nessuna delle sue mogli incontra il santone Salim che guardacaso prevede nel suo immediato futuro la nascita del suo erede, adoro le leggende, gli indiani poi sono specializzati… il santone si impegnò talmente tanto che l’imperatore ebbe non uno ma ben tre figli maschi, uno di questi chiamato appunto Salim in onore a chi ne aveva profetizzato il felice evento. Il dolce Akbar, felice per aver avuto finalmente il suo erede, ops, volevo dire tre, decide di far costruire la nuova capitale del suo regno, tra cui una splendida moschea, che spesso le guide si scordano di indicarvi, e tre palazzi, uno per ognuna delle prodighe mogli, uno indù, uno musulmano ed uno cristiano… ebbene ecco quello che amo della leggenda: che sia vera o no, chiaro che non lo è, io adoro questo concetto di multietnicità, tradotto in arte poi mi da i brividi, perchè è quello che rimane alla fine.
Leggenda o no dopo appena 14 anni l’imperatore e tutta la sua corte, e questa leggenda non è, lascia la rossa neocapitale, il colore è dato dalla pietra arenaria con la quale è stata costruita, e si sposta per avvicinarsi ai suoi eserciti impegnati a difendere i confini nord-ovest dell’impero… e nessuno, sigh, fece, sigh, più ritorno. Resta un sito che rappresenta un momento storico irripetibile, quando l’islam comunicava attraverso la bellezza. Se decideste di andare iniziate la visita dalla sua moschea, il portale d’ingresso è ritenuto fra i più belli di tutte le moschee qui in India.
… e sono arrivata alla meta, lui, una delle più sublimi opere dell’arte musulmana, una delle ‘nuove’ sette meraviglie del mondo, il Taj Mahal, ma per tutti i romantici come me, sigh, sigh, questo è il tempio dell’amore eterno: “E’ una lacrima di marmo poggiata sulla guancia del tempo”. Tagore, poeta bengalese
E’ il mausoleo dei record: 22 anni di lavoro per la sua costruzione, che molti indicano iniziata nel 1632 e conclusasi nel 1654. Per tradurre in linee e curve l’amore di questo imperatore per la sua principessa furono impiegate 20.000 persone. Maestranze fra le più sofisticate furono convocate da tutto l’impero, dall’Asia centrale, dall’Iran e, siccome siamo quello che siamo, persino un artista italiano. Circa un migliaio fra elefanti e bufali furono utilizzati per trasportare le straordinarie materie prime, e ne hanno fatta di strada questi animali: il diaspro importato dal Punjab, il cristallo e la giada dalla Cina, i turchesi dal Tibet, i lapislazzuli dall’Afghanistan e visto che risultava ancora troppo poco prezioso perchè non incastonare sul candido marmo bianco del Rajasthan qualche zaffiro dello Sri Lanka e della corniola dall’Arabia. Una mirabile opera di ingegneria, si adottarono soluzioni eccezionali per l’epoca persino per creare il reticolo di condotte a gravità per deviare l’acqua del fiume verso le fontane. Per non parlare delle tecniche antisismiche, i 4 minareti per esempio, tendono verso l’esterno per crollare, in caso di terremoto, lontano dal mausoleo.
Batte tutti i record anche per il numero di leggende che lo avvolgono. La prima riguarda proprio lei, la principessa a cui è dedicata la tomba, morta durante il parto del suo 14° figlio, all’età di 38 anni mentre accompagnava il marito per sedare una rivolta: tanto bella che persino la luna provava soggezione di apparire in sua presenza. Talmente innamorati da non dormire mai separati. Talmente intelligente da essere la consigliera negli affari di governo dell’imperatore suo marito. La sua morte provocò un tale sconforto nel marito che nel giro di pochi mesi la sua folta capigliatura corvina divenne bianca come il marmo del futuro mausoleo. La più raccapricciante è quella secondo la quale al termine dei lavori, Shah Jahan, abbia fatto mutilare i capomastri, accecare i calligrafi e fatto decapitare il povero e geniale architetto, perchè nessuno di loro potesse ricreare qualcosa di altrettanto bello…
… triste storia davvero triste, tanto quanto gli ultimi anni della sua vita: per dedicarsi alla costruzione del Taj Mahal, l’imperatore trascurò il suo governo e dilapidò una fortuna, questo mise in allerta il suo erede. Ma, leggenda vuole che il buon Shah, non contento del folle investimento, palesasse la volontà di erigere sull’altra sponda del fiume un gemello Taj di colore nero, dove far collocare la sua salma a morte avvenuta, marcando l’idea di inseparabilità dalla moglie con un ponte d’oro che unisse i due mausolei… Shah, non ti sembra di esagerare? deve aver detto il figlio che, dopo un colpo di stato, lo accontentò a modo suo: lo rinchiuse nel vicino forte Rosso, in una stanza dalla cui finestra poté ammirare fino alla morte, ‘la lacrima di marmo sulla guancia del tempo’ il simbolo dell’amore eterno. Sei stato un folle Shah, ma devo dirti grazie perché ci hai lasciato il prodotto dell’era più felice della storia indiana, quella in cui si afferma un islam aperto e tollerante capace di convivere in armonia con l’induismo ed il cristianesimo… questa filosofia è per me, il vero ‘monumento all’amore’.
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