Quello di Mamoiada è uno degli eventi più celebri del folklore sardo. Noi turisti ci ostiniamo a chiamarlo banalmente carnevale, ma quello che si celebra qui, nei giorni destinati alla festa mascherata, non ha nulla di divertente, anzi, l’incedere e il ritmo della sfilata ha qualcosa di solenne e di sofferente allo stesso tempo.Di carnascialesco ha poco: è povero, semplice, mancano gli opulenti e barocchi carri allegorici, le maschere colorate e i balli sfrenati, eppure ogni anno una massa di turisti si riversa in Barbagia per assistere ad un evento autentico e suggestivo. Come quello di Ottana, inizia il 17 gennaio con l’accensione dei fuochi di Sant’Antonio, festa che dà l’avvio a tutta una serie di riti propiziatori della fertilità in quasi tutto il Mediterraneo. Attraverso la sfilata dei Mamuthones viene rappresentato il ciclo della morte e della rinascita della natura, l’esorcizzazione del male attraverso il grottesco.
Mamuthones e Issohadores. Sono i due protagonisti della rappresentazione. La vestizione è un momento molto sentito dai partecipanti, nessun estraneo è ammesso durante questa fase, se non qualche fotografo o giornalista. Io ero una dei fortunati a cui l’associazione Atzeni ha concesso l’accesso a quello che è vissuto come un vero e proprio rito. L’accensione del fuoco ha dato il via a tutta la preparazione, da questo momento ha inizio un’operazione molto meticolosa e faticosa, tanto che occorrono almeno due persone per vestire un Mamuthone.
Sull’abito di velluto marrone viene indossata la ‘mastruca’, una casacca di pelle ovina nera, sul dorso vengono allacciate con un sistema di ancoraggio complesso e minuzioso, le pesanti cinghie di cuoio che reggono i campanacci, denominate ‘sa carriga’. La fatica sul volto è visibile fin dalle prime cinghie. Al termine dell’operazione ogni singolo partecipante si ritroverà sulla schiena un peso di 30 chili. Ma non è soltanto il peso a rendere difficile ogni movimento, quanto la morsa delle cinture, strette fra le spalle e il torace tanto da rendere faticosa la respirazione.
Un altro gruppo di campanelle appese al collo completerà il corredo bronzeo del Mamuthone.I campanacci fino a tempi molto recenti erano forniti in via amichevole dai mandriani, recuperandoli fra quelli più malandati delle loro mandrie. I ‘sonazzos’ sono di bronzo e all’interno il batacchio, ‘limbatthas’, è costruito utilizzando le ossa del femore di capre, pecore, asini o altri animali.
Sono talmente pesanti da costringere chi li indossa a fermarsi di tanto in tanto per alleggerire la schiena.
Molto più solare e leggero l’abito dello Issohadore che si contrappone al cupo e grottesco Mamuthone, e anche più semplice da indossare: una giubba rossa su di un pantalone bianco ed uno scialletto frangiato e ricamato, annodato in vita con la parte colorata abbandonata sulla gamba sinistra. Una bandoliera in pelle lavorata a mano da cui ciondolano dei sonagli viene indossata trasversalmente sul torace, e poi c’è c’elemento distintivo che dà il nome al personaggio: ‘Sa Soha’ una lunga fune a cappio, di giunco e corda, che farà roteare mentre scorterà i ‘mastrucati’.
‘Sa Visera’ e ‘Sa Visera ‘e Santu’
L’elemento distintivo dei due personaggi è senza dubbio la maschera lignea, realizzata in legno di pero selvatico o, in alcuni casi, di ontano. ‘Sa Visera ‘e Santu’ è la maschera bianca, inespressiva, indossata dagli Issohadores. Il suo uso è stato reintrodotto da una decina d’anni, dopo attenti studi uniti alle testimonianze degli anziani locali. E’ incorniciata dalla nera ‘berritta sarda’ legata al mento da un fazzoletto colorato.Quella dei Mamuthones, ‘Sa Visera’, vuole essere diabolica ma ha un’espressione sofferente, afflitta, dolente. Durante la sfilata, il loro incedere pesante e affaticato, unito all’espressione di prostrazione delle maschere, ispirano più compassione che paura. Se questo è un demone, che rappresenta il male da scacciare, questo male deve far parte di me, di noi, perché quel dolore senza nome, muto, silenzioso, io… noi, lo abbiamo riconosciuto.
E giunge il momento più mistico della vestizione, quello in cui ogni persona abbandona la sua essenza umana. I Mamuthones coprono il loro berretto con un fazzoletto, il ‘muncadore’, elemento femminile, quasi a sottolineare l’androginia del personaggio, e indossano la maschera. E’ il momento culmine di ogni trasformazione: che sia un attore, un uomo comune o uno sciamano, indossare una maschera significa perdere la propria identità, significa metamorfosi. Cosa sono diventati questi personaggi e quale cerimonia si apprestano a compiere?
La sfilata dei Mamuthones a differenza di altre sfilate del genere molto più caotiche, vedi Ottana, è ordinata come una danza ed è solenne come una processione. Tradizionalmente il gruppo è composto da 12 Mamuthones disposti in due file parallele di sei, ai cui fianchi e ai lati posteriori e anteriori sono preceduti e seguiti dagli Issohadores. Procedono a passi cadenzati perfettamente sincronizzati, dando delle scrollate di spalla che gli fanno ruotare il corpo, prima a sinistra e poi a destra, dopo un certo numero di passi fanno tre rapidi salti su se stessi e si fermano per una breve pausa. Non è facile per me descrivere cosa si prova quando da lontano si inizia a sentire il suono dei campanacci, un rumore cupo, privo di armonia e quasi molesto. Man mano che il suono si avvicina, unito all’incedere faticoso ma ordinato dei personaggi, acquisisce una sua musicalità, forse dettata dal sincronismo della danza che, seppur infernale, tocca le corde di una primordiale sensibilità tanto da far scattare in me un’emozione più vicina alla compassione, alla pietà, che alla paura.
Gli Issohadores si muovono con passi più agili e sciolti, seguono la processione guardandosi attorno come se volessero proteggere i Mamuthones da qualche nemico, poi d’un tratto lanciano la ‘soha’, il laccio, per afferrare una donna scelta in mezzo al pubblico tirandola a sé come una preda, gesto che negli arcaici riti agropastorali era un modo per propiziarsi la prosperità e la fertilità della madre terra.
Fra l’ilarità del pubblico e delle giovani e belle prede, legate al laccio, i Mamuthones continuano la processione fino a che non riprendono la fragorosa danza, questo breve percorso fatto in totale silenzio rende le maschere mute ancora più misteriose, rievoca la processione degli iniziati a chissà quale culto arcaico.
Sono tante le attribuzioni alle origini e al significato di queste maschere. Per alcuni sono rituali pagani legati al ciclo della ‘morte e della rinascita’, riti celebrati per venerare gli animali: il rumoroso ballo dei campanacci serve ad scacciare il male e a favorire la fertilità della terra, ed in questo caso gli Issohadores rappresenterebbero i mandriani, e la ‘soha’ il lazo usato nelle transumanze per recuperare i buoi più indisciplinati. Altri vedono nell’evento la celebrazione della vittoria dei pastori sardi, gli Issohadores, il cui abito si chiama ‘veste ‘e turcu’, sui mori, gli invasori rappresentati dai Mamuthones, portati in corteo in segno di umiliazione.
Andando via verso la macchina, l’eco dei loro campanacci crea nello spazio una sonorità ieratica, solenne e allo stesso tempo misteriosa e non faccio che chiedermi quali oscuri significati si celino dietro questa processione, apparentemente semplice ed elementare ma che mi ha lasciato la sensazione di aver partecipato ad una messa, ad un rito che mi ha riportata ad un rapporto primordiale con la natura, lasciandomi una forza dentro che non riconosco mia… riprendo il viaggio, devo percorrere circa 20 chilometri per raggiungere la successiva destinazione, un’anziana donna mi indica due percorsi: una strada provinciale ed una ‘campestre’, avvisandomi che la seconda è molto tortuosa, pericolosa, potrei non trovare un’anima viva ma solo qualche mandria di buoi che potrebbe ostacolare la via… non ho dubbi su qualche sceglierò.
Voglio rivolgere un ringraziamento speciale all’associazione Atzeni che mi ha permesso di realizzare questo articolo.
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