primo giorno
Sono a 4.900 metri di altitudine, sul Paso Patapampa, il Mirador De Volcanes, da qui inizia un viaggio che mi porterà nel ventre di questa terra, il canyon Colca, per raggiungerlo attraverserò la Riserva Nazionale Salinas y Aguada Blanca, fra le più belle del Perù meridionale, un piccolo paradiso che mi sta regalando sentimenti contrastanti, tanta meravigliosa armonia e tanta rabbia.
Lei è Pilar, tutte le mattine porta i suoi lama e le sue alpaca al pascolo, ma non appena vede arrivare un bus turistico si precipita sul ciglio della strada, e si ferma lì immobile come se quella fosse la sua dimora da sempre. Porge qualcosa da mangiare al suo animale che ne approfitta voracemente, certo che da questo momento la manna ha un timer, 10 minuti circa, e aspetta. Aspetta che i turisti inizino ad avvicinarsi per selfare con lei, a quel punto Pilar dispensa sorrisi, la cui spontaneità è garantita dai pezzi di coca attaccati sui denti, fino a che i turisti stanchi e certi di aver portato a casa il loro reperto fotografico non si ritirano lasciando un sol come ‘propina’, è a questo punto che Pilar, contenta, gira le spalle all’animale e ritorna a pascolare.
Non ci trovo nulla di male: Pilar è felice per il suo bottino, l’animale pure perchè ha sfruttato bene quei pochi minuti divorando l’impossibile, e i turisti… i turisti ancor più felici perchè hanno avuto il loro selfie. Ma perchè dunque ho sentito il bisogno di scriverne? forse lo capirò più avanti. Continuo il viaggio all’interno della Riserva Nazionale Salinas y Aguada Blanca, altra sosta interessante è quella che mi permette un primo approccio con alcune donne appartenenti ad una delle due etnie presenti nella valle, le Collaguas.
Le ho incontrate in uno dei mirador che si affacciano sulla sottostante valle del colca. Le donne, che qui espongono il loro piccolo mercato fatto di prodotti artigianali, sono facilmente riconoscibili per il loro caratteristico abito ricamato e per la particolare foggia del cappello impreziosito da paillettes e da due coccarde laterali.
secondo giorno
Lascio il villaggio di Chivay e continuo il viaggio che mi porterà alla Cruz del Condor attraversando il piccolo pueblo di Yanque. Arrivo a Yanque di primo mattino, è quasi l’alba, ho il tempo di ammirare il vulcano Sabancaya in lontananza che sembra seguirmi con i suoi pennacchi, quando un gruppo di ragazzi spuntati all’improvviso chissà da dove, dà inizio a una danza forsennata attorno alla minuscola piazza.
Non c’e alcuna festa che giustifichi un ballo a quest’ora del mattino. Danzatori in abiti tradizionali ballano in modo sciatto, dozzinale e grossolano, con un’espressione in viso di chi deve fare qualcosa malvolentieri. A turno i ragazzi escono dal vorticoso giro di giostra per avventarsi contro il primo turista per richiedere una mancia. Sono molto arrabbiata con me stessa: ma perché quando me lo sono visto davanti, ed i suoi occhi mi hanno guardata fissa come per dire: ‘dammela e facciamola finita entrambi con questa messinscena, io tornerò a ballare e tu sul tuo pullman diretto chissà dove’, perché a quel punto non l’ho fermato, pregato di togliersi questo cappello e questo costume per portarlo al bar a bere un succo o che altro… perché ho ceduto a questa aggressiva richiesta di un sostegno di cui forse non ha neanche bisogno o che non vuole, perché i suoi occhi tutto chiedono tranne che aiuto. Chiedono di ultimare un gesto che oggi è per lui un lavoro di routine, un lavoro che non ama, perché sa che non lo porterà al futuro che desidera.
Continuo il mio viaggio che mi porterà alla Cruz del Condor passando per il piccolo pueblo di Maca. Qui ho incontrato i Cabanas che insieme ai Collaguas rappresentano i discendenti delle due etnie contrapposte che abitarono queste zone in epoca preispanica. In passato le due etnie si contraddistinguevano per le deformazioni che apportavano al loro cranio, allungato uno e schiacciato l’altro… operazioni terribili che ottenevano fasciando il cranio fin dalla tenera età e che poi i bravi spagnoli abolirono perché ‘poverini’ impressionati da tanta crudeltà. Oggi per fortuna a tenere distinte le due etnie ci pensano le donne con i loro abiti tradizionali e in modo particolare con il cappello, conico che richiama la forma del vulcano per le Cabanas e di paglia con paillettes, perline e tanto di coccarda per le Collaguas… e meno male, perché distinguerle dall’abito, per un’occhio poco allenato non è facile.
Sono abiti interamente realizzati a mano che raggiungono costi quasi proibitivi per le donne meno abbienti, tanto che spesso vengono ereditati o portati in dote.
Sono arrivata alla Cruz del Condor, il punto migliore per ammirare il canyon del Colca, da questo punto si apre un baratro di 3000 metri di profondità, ed è qui che i condor si librano facendosi trasportare dalle correnti calde ascensionali, una emozione senza misura. Ma non mi sento di pubblicare nessuna alcuna foto di questo grande momento, no, ‘il cuore non me lo dice’, perché mentre sopra la mia testa vola la più grande espressione di libertà, immortalata da centinaia di turisti, a pochi chilometri da qui quegli stessi ‘amanti della natura’, poco prima, posavano davanti ad altrettanta bellezza denigrata e offesa dalla nostra idiozia.
Ma cosa siamo diventati, ora che grazie a dio tutti possiamo permetterci di viaggiare e scoprire le meraviglie del mondo l’unica cosa interessante che riusciamo a fare è metterci davanti ad un telefono per poi postare una stupida foto che ci ritrae, con l’aria dell’ultimo dei conquistadores spagnoli, accanto al braccio di una vecchia, che sfoggia abiti variopinti tanto lindi e pinti che sembrano usciti dal guardaroba della costumista dell’arena di Verona, che regge un’aquila ben legata… ma questo è viaggiare, questo è scoprire, guardare, condividere?
E il momento più doloroso è stato quando ho visto un falco posizionato in un bel set altamente scenografico in attesa del turista desideroso di apparire in foto al suo fianco, con la faccia da Indiana Jones dei miei stivali. Ho provato a comprarlo per ridargli la libertà e per tutta risposta il proprietario, dopo un sorrisino beffardo, e come dargli torto povera stupida che sono, mi ha risposto che da libero non sopravviverebbe perché gli è stato tagliato un tendine e questo gli impedisce di volare e quindi di procurarsi il cibo.
Ma ci è difficile comprendere che finché daremo l’elemosina ad un bambino stiamo facendo il gioco dell’adulto e questo bambino non avrà mai un’infanzia, e finché continueremo a farci ritrarre con un animale lo abbiamo condannato alla schiavitù?
Perchè sento il bisogno di scrivere tutto questo, forse perché spero che qualcuno lo legga e poi un altro e un altro ancora e grazie a questa pagina di diario si possa concretizzare un’utopia, quella di credere che fra qualche anno qualcuno di noi tornerà in questi luoghi e posterà una foto al fianco di un’anziana signora in abiti tradizionali che alla fine della posa allungherà il suo braccio spoglio per ricevere in cambio la sua legittima mancia di ringraziamento, e tutto questo mentre le aquile volano libere e possibilmente lontano.