Il martedì grasso, in quasi tutto il mondo segna la fine del carnevale ed il giorno successivo, il mehuris de lessia ovvero mercoledì delle ceneri, l’inizio della quaresima… non qui. Qui ad Ovodda, dove un giorno l’anno, tutte le regole vengono meno, il mercoledì delle ceneri è carnevale. Da quando sono qui, la Sardegna, mi ha insegnato a non pensare in modo convenzionale, pertanto sapevo di non dovermi aspettare un classico carnevale con i coriandoli, ma… se pensavo di aver visto tutto nella vita era perché non ero stata ad Ovodda.
Sono arrivata in tarda mattinata, il paesino è quasi deserto, certo non ci si aspetta la folla in un comune di circa 1600 abitanti, ma nemmeno il deserto. Com’è mia abitudine, quando arrivo in un posto, mi reco presso quelle che sono le istituzioni culturali: pro loco, assessorato, o qualsiasi associazione che possa darmi notizie su eventuali eventi previsti. La pro loco è chiusa e al comune, semideserto, mi dicono di non sapere nulla su quanto accadrà oggi in paese, segno evidente che se c’è qualcosa non è stato organizzato da alcuna istituzione. Ritorno nell’unica via principale del paese nel tentativo di trovare qualcosa da mangiare, ma l’unico salumiere aperto mi comunica che sta per chiudere e non riaprirà, come anche tutti gli altri negozi, per via del carnevale, in quanto teme per la sua incolumità e quella del negozio… ops! Chiedo spiegazioni: ‘ma cosa può mai succedere’ e la risposta mi lascia ancora più perplessa, ‘di tutto…’ Intanto il corso inizia ad animarsi di qualche ragazzino che scorrazza su ‘carrocci’ di legno costruiti in modo artigianale, certo mi fa specie vedere dei ragazzini corredati da bottiglie di vino, ma è carnevale e l’emulazione degli adulti è consentita… e poi siamo ad Ovodda.
Percorro le deserte viuzze che tagliano il corso principale e di tanto in tanto scorgo delle persone che si colorano il viso di nero, e ho modo di scoprire che non si tratta di cerone colorato quando un giovane molto vivace e allegro mi si avvicina con le mani intinte di ‘nero fumo’ dicendomi: ‘ma sei ancora bianca!’ Avrei tanto voluto rispondere che il bianco è il mio colore preferito quando sento affondare sulla pelle del mio viso le sue dita, viscide. Improvvisamente, come una ‘madeleine’ proustiana, mi è tornato alla mente quando da bambini, noi generazione fortunata del ‘carrociolo’, intingevamo le dita nel barattolo di un certo grasso gelatinoso per passarle poi sui cuscinetti… a quel punto ho capito che se volevo affrontare questa giornata dovevo abbandonarmi a quel putribondo e mefitico olezzo, godermi la carezza di questo giovane e convincermi che sono ad Ovodda.Sono gli ‘Intinghidores’, ed hanno un ruolo ben preciso, imbrattare con polvere di sughero bruciato, lo ‘Zinziveddu’, tutti i partecipanti alla festa; il diktat è assoluto: se vuoi stare qui con noi devi partecipare e non osservare, via dunque le fotocamere, e… bevi, bevi, bevi. A quel punto mi guardo attorno e vedo che tutti i partecipanti alla festa, i ‘sos Intintos’, sono muniti di una tanica di vino, e percorreranno le vie del paese bevendo ed invitando gli ospiti a seguirli. Rifiutare la loro offerta è una terribile scortesia, che potrebbe portare a reazioni inaspettate. Non mi resta che bere da un bicchiere, quando sono fortunata, o da una tazza di legno da cui tutti, e dico tutti, i passanti sono invitati ad abbeverarsi.
Dal mio volto nero, gli occhi sbrilluccicosi, per contrasto o per il vino, mi restituiscono una nuova realtà ed ora che ho superato il mio rito d’iniziazione posso vivere e leggere questo evento in tutta la sua essenza. I veri protagonisti sono i ‘sos intintos’ , dal volto nero di fuliggine, ricoperti di stracci vecchi, ma anche con lunghi pastrani di orbace nero, con gambali di cuoio o vestiti di velluto nel tipico abbigliamento dei pastori barbaricini, con indosso pelli di ovini.
Gli Intinghidores hanno il compito di tingere con polvere di sughero bruciato il viso di coloro che incontrano lungo il cammino, in un gesto che rappresenta il rituale d’ingresso alla festa; accettando di partecipare si accettano anche le due regole: il caos e l’anarchia.
C’è un altro personaggio muto, Don Conte, un fantoccio dalle fattezze umane che esibisce il suo sesso eretto che userà, come un ariete, per farsi spazio fra la folla.
Viene portato in giro per il paese su un carretto trainato da un asino e addobbato con elementi grotteschi, come la testa di una capra, fresca di macello. Come tutto qui anche il percorso di Don Conte non segue alcuna regola o programma, la processione porta il fantoccio a vagare senza alcuna meta precisa: chi vuole può accodarsi oppure perdersi fra la folla, che nel frattempo si è popolata di quegli elementi che sono alla base della cultura pastorale della comunità, capre, montoni, e asini che tentano di copulare cercandosi impetuosamente fra la folla.
Dal momento in cui il fantoccio fa ingresso fra la folla il ritmo si fa più sfrenato, maschere adulte o bambini sfilano in groppa agli asini o tenendo al guinzaglio un animale, e intanto urla, canti e strumenti occasionali uniti ai campanacci creano un fortissimo frastuono, il vino scorre a fiumi da ogni tipo di contenitore: il più originale ha posizionato sulla schiena una tanica che con un sistema di tubi scende fin sotto la cintola, da cui pende un molto esplicito pene di gomma che all’occorrenza viene premuto per premiare la preda femminile di turno che cederà al giogo. Chi, come me, tenta la fuga verrà punita con un lungo schizzo di vino, fra l’ilarità degli astanti, compresa la mia che rido felice di essere scampata al giogo e contenta del fatto che ho previdentemente e sagacemente invertito il senso della mia giacca… così a fine serata non dovrò far altro che rigirarla ed indossare la parte unta e bisunta direttamente sul maglione pulito, lasciando all’esterno la parte pulita, un genio!
La prima cosa che differenzia questa manifestazione rispetto agli altri carnevali barbaricini ai quali ho assistito (Ottana, Mamoiada) è la totale assenza di transenne che possano preservare da eventuali scatti incontrollati o imbizzarrimento degli animali, zero presenza degli enti istituzionali nell’organizzazione dell’evento, la mancanza di qualsiasi tipo di propaganda ed infine il fatto che non ho visto un solo rappresentante delle forze dell’ordine. Tutto questo rafforza l’idea di spontaneità dell’evento. Tutto quello che accade oggi è degli ovoddesi che con forza e, lasciatemelo dire, con anarchica volontà, rifiutando ogni forma di omologazione o standardizzazione, ogni anno mettono in scena la propria identità culturale. E come negli altri riti agropastorali visti ad Ottana e Mamoiada, anche qui c’è un demone da esorcizzare e questo avverrà proprio attraverso la trasgressione, il caos, l’anarchia: quale gesto più dissacrante si può ostentare se non quello di festeggiare nel momento in cui tutto il mondo cattolico ha iniziato le quaresima, ovvero il momento più cupo e buio dell’anno, fatto di preghiera, di penitenza e mortificazione corporale?
Io lascerò la scarpetta prima che faccia buio perché ho un altro impegno nella vicina Lodine, qui si continuerà a bere senza sosta. Scesa la sera, il fantoccio, che non è il dio morto di cui si auspica la ciclica rinascita come abbiamo visto nelle precedenti manifestazioni (vedi Ottana e Mamoiada), verrà prima giustiziato, poi bruciato ed infine gettato giù nel fiume; subito dopo l’intera comunità, cioè quella parte che ancora si reggerà in piedi, si ritroverà tutta attorno ad un banchetto ad ultimare i bagordi. Il giorno successivo, secondo l’ordine naturale delle cose, al caos seguirà l’equilibrio.
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