Il museo è forse il luogo più importante della comunità, in esso non sono contenuti semplici reperti archeologici, i beni storici di un paese, le testimonianze delle varie civiltà umane, in esso è contenuta la nostra identità, il museo documenta l’esistenza materiale e immateriale dell’uomo, è uno scrigno prezioso che custodisce, la sostanza di cui costituita l’umanità, il ‘tempo’.
Uno scrigno prezioso dunque, che viene protetto, accudito, mostrato, curato e infine mostrato da alcune figure spesso invisibili.
Alcuni di loro non li vedremo mai, sono i restauratori, altri invece sono la porta di ingresso del museo, li incontriamo in ogni stanza e nei percorsi da uno all’altro settore, ma non li vediamo perché si rendono impercettibili, sono quelli che chiamiamo comunemente vigilanti.
Alessandro, Elena e Pasquale, sono solo alcuni degli innumerevoli vigilanti del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Puoi visitare il museo anche tutti i giorni e non vederli mai, ma loro ci sono, sono delle figure lievi, quasi invisibili ma pronti a palesarsi al minimo cenno di necessità. Pronti ad ‘accogliere e assistere gli ospiti alla fruizione’, e vivono questo aspetto del loro lavoro come una missione già dal momento in cui aprono le sale al pubblico, che è come se aprissero le porte della città al mondo.
In una delle mie visite al museo Elena mi ha accompagnata nella sezione dedicata alla ‘Magna Grecia’, qui mi ha pregato di indossare le sovrascarpe per non sciupare i preziosi mosaici, e lo ha fatto con la stessa amorevole cura con la quale una madre proteggerebbe il figlioletto dal freddo.Ogni giorno il loro percorso è sempre uguale e uguali le opere nel loro cammino, dovrebbe essersi creata una certa assuefazione, e invece non è così, ognuno di loro ne ha adottato spiritualmente una, quella di Elena è la tazza Farnese che mi mostra con orgoglio raccontandomene la storia in ogni suo particolare.
Nell’immaginario comune i custodi sono figure mute che interagiscono con i visitatori solo per dare indicazioni su dove trovare l’uscita, la toilette, o l’ascensore, qualcuno che vigila e mantiene la sicurezza nelle sale. Per Alessandro e i suoi colleghi, il ruolo è quello di accogliere gli utenti, assisterli alla visita, indirizzarli in alcuni casi suggerendo il percorso giusto. E quando l’ultimo ospite è andato via e rimane da solo insieme agli enormi lapidei padroni di casa, Alessandro sa che fatto del suo meglio negli onori di casa e può ritornare invisibile.
Altri grandi invisibili sono i restauratori.
Il laboratorio di conservazione e restauro del Mann è fra i più prestigiosi in Italia, una vera eccellenza, un punto di riferimento non solo per la Campania. Circa 20 operatori con competenze differenti e abilità specialistiche di grande livello, sono distribuiti in quattro laboratori: Materiali Lapidei e Copie; Dipinti Murali e Mosaici; Ceramica, Vetri, Ossi, Avori; Metalli.
Da quasi quarant’anni, nelle loro mani è passato il più ricco e pregevole patrimonio di opere d’arte e manufatti di interesse archeologico in Italia, quarant’anni.Quarant’anni di conservazione, restauro, e allestimenti sia al Mann stesso che in altri musei italiani ed esteri. Innumerevoli sono le collaborazioni con altre importanti realtà museali per prestiti temporanei finalizzati al restauro un esempio, ma non unico caso, il ‘Cratere di Altamura’ esposto al Getty Villa di Malibù.
A loro si devono anche le copie, realizzate in scala 1:1, della dell’Ercole Farnese e della testa Carafa che ogni giorno, locali e turisti, possono ammirare nella stazione Museo della Metropolitana di Napoli.
Ogni giorno visitatori da tutto il mondo ammirano opere le cui operazioni di restauro sono opere stesse. Quarant’anni di esperienza che sono arte stessa. Per quarant’anni hanno protetto e custodito il nostro bene più prezioso, il tempo’.
Ma quando questi operatori, nei prossimi due anni saranno andati in pensione, che ne sarà della loro ‘arte’, quello che oggi si chiama know how, il ‘saper fare’. Riusciranno a trasmetterlo nei brevi laboratori stage formativi, che spesso organizzano ospitando gli studenti del Corso di Laurea Magistrale in Conservazione e Restauro dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa o dell’Accademia di Belle Arti?
Se lo chiedi a loro, ti mostreranno con fierezza le opere sulle quali hanno lavorato mostrandoti gli interventi fatti, ma se pensano a questi quarant’anni un velo di tristezza cala sul loro volto, tristezza che per rivalsa mascherano con l’orgoglio più grande, il vero restauro, anzi no, la vera opera d’arte, visibile sulle pareti dei loro laboratori: i nipoti.