Un elisir tosco-peruviano. La produzione iniziata nel 1884 ha ormai conquistato clientela e bar tender. L’idea del creatore, Giuseppe Clementi, di puntare sull’amaro tonico e digestivo. La farmacia storica nell’antica centrale idroelettrica.
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I pochi fortunati che hanno il piacere di essere accolti dalla dottoressa Federica Galeassi Clementi nell’attuale opificio, nato da una vecchia centrale idroelettrica dell’Enel, vengono travolti da un odore intenso che, come una madeleine proustiana, rievoca storie d’altri tempi. Sembra di essere catapultati nell’ aromaterìa dei Florio dei primi anni dell’Ottocento, descritta da Stefania Auci nel suo I Leoni di Sicilia, la cui insegna fra l’altro raffigurava un leone ferito che si abbevera sulle rive di un torrente su cui affondano le radici di un albero di china.
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La china (Cinchona), dal termine inca ‘kinia’, corteccia, è una pianta originaria della regione amazzonica delle Ande peruviane, dell’Ecuador, della Colombia.
Tante sono le leggende che riconducono alla scoperta dei suoi benefici, da quelle più elementari che raccontano di animali malati che guarivano rosicchiando la corteccia dell’albero, agli indios affetti da stati febbrili che guarivano dopo aver bevuto acqua di palude tinta di rosso dalle piante di china cadute per opera di calamità naturali, a quelle più edulcorate che hanno come protagonista la contessa Ana de Osorio Chinchón, moglie del viceré del Perù Luis Jerónimo de Cabrera che, intorno al 1630, è affetta da una terribile febbre dalla quale guarisce solo grazie ai rimedi tradizionali indigeni che prevedono l’uso della china. Recuperato il suo slancio vitale e per ringraziare della guarigione, la contessa dispone che tutti i poveri di Lima vengano curati allo stesso modo.
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Quello che rende favolistico questo racconto è dapprima il fatto che un regnante possa avere a cuore il suo popolo, e poi il fatto che in realtà ad accompagnare il vicerè in sudamerica fu la seconda moglie Francisca Henríquez de Ribera che per sua fortuna godé di ottima salute.
Malgrado l’inconsistenza storiografica di questi racconti Carlo Linneo, il grande botanico, diede il nome di Cinchona al genere cui appartiene l’albero della china in omaggio alla contessa de Chinchón.
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Molto più verosimilmente furono i gesuiti ad attingere alle conoscenze degli indios. Uno in particolare, il gesuita Bernabè Cobo, viene indicato come il divulgatore in tutta Europa, tanto che in molti trattati medici del tempo, la corteccia triturata della china veniva anche chiamata ‘polvere gesuita’. Comunque, leggende a parte, dal Seicento in poi e fino a non molti anni fa il suo principio attivo, noto con il nome di chinino, ha avuto un ruolo molto importante nella storia dell’umanità permettendo di curare e salvare un numero incalcolabile di persone, usato non solo come antipiretico e antidolorifico, ma soprattutto come unico vero farmaco contro la malaria, malattia che affligge da sempre, e mai debellata, i paesi tropicali dal clima umido e che persino noi italiani abbiamo dovuto fronteggiare. Se fino a tutto l’Ottocento il chinino aveva un costo elevato, dagli inizi del Novecento fino agli anni trenta la distribuzione del ‘chinino di stato’ era capillare e lo si poteva trovare persino nelle tabaccherie ad un costo accessibile a tutti.
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Il dott. Giuseppe Clementi, studioso di botanica, doveva conoscere bene le proprietà della china e lo provano i quaderni di appunti che ci mostra con fierezza la dottoressa Galeassi, ed è verso la fine dell’Ottocento che mette a punto la ricetta del suo elisir: non come la tradizione liquoristica fino a quel momento aveva previsto ovvero privilegiando sostanze zuccherine ma, al contrario, favorendo sostanze amare e quindi curative. Giuseppe sceglie dunque due pregiate varietà di China tropicale, la Cinchona Calisaya e la Chincona Succirubra, scorze di arancia amara, alcune erbe aromatiche ed officinali, alcol e zucchero. Nasce così, nel 1884, nel retrobottega della storica farmacia ancora presente oggi a Fivizzano nel cuore della Lunigiana, la produzione dell’’Antico Elixir China Clementi’ dalle proprietà tonico digestive.
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E, a conferma che aveva creato un prodotto di eccellenza italiana, nel 1911, quattro anni dopo la sua morte, all’esposizione agricolo-industriale di Roma, l’Elisir di Giuseppe Clementi riceve il massimo riconoscimento, salendo sul podio in compagnia de La cioccolata Bonaiuti di Modica, Pelati Butti, e Trussardi.
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Sarà questo successo unito alle qualità dell’amaro a spingere le future generazioni a continuare la produzione con ancora più passione di prima, nel rispetto dell’antica ricetta di famiglia, e lo faranno nello stesso retrobottega della farmacia storica di famiglia -ricostruita fedelmente com’era in quanto l’originale fu distrutta due volte, dal terremoto nel 1920 e da un bombardamento nel 1944- fino a quando, circa quarant’anni fa, per una strana legge che avrebbe impedito di rivenderlo senza prescrizione medica, si sono dovuti spostare e lo hanno fatto trasferendo l’opificio in un luogo molto suggestivo, in quella che è stata la prima centrale idroelettrica della provincia di Massa e Carrara.
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Ed è qui che la dottoressa Federica Galeassi, insieme ai nipoti di Giuseppe Clementi, accoglie i visitatori deliziandoli con la storia della nascita di questo amaro ed ovviamente con la degustazione dell’elisir, che forse non farà ringiovanire, com’è stato per Indro Montanelli che nel 1983 scrive: ‘Senza saperlo lei mi ha ringiovanito di vent’anni. Bevendo la sua China, è stato come rituffarmi nelle cose buone e vere della mia infanzia’, ma con il suo particolare colore ambrato è un piacere per gli occhi e per il palato.
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