Alpi Apuane

Nel Ventre della montagna, la vita

La diatriba è ormai nota a tutti: da qualche decennio l’estrazione del marmo di Carrara va avanti a ritmi sregolati, provocando danni a tutto il territorio.

Uno sventramento non giustificato da un rientro economico per la collettività, la grande ricchezza prodotta resta nelle mani di pochi, con l’aggravante che il vero business non sono solo i preziosissimi marmi destinati in minima parte alla statuaria o all’edilizia -in mano per buona parte alla Bin Laden, il gruppo della famiglia del terrorista saudita- ma i detriti, ovvero il carbonato di calcio, tanto ghiotto per la multinazionale svizzera Omya e diventato ormai insostituibile nella produzione di dentifrici, cosmetici, farmaceutici, alimentari e tanti altri prodotti dei generi più diversi. Le stime sono terrificanti: negli ultimi 20 anni si è scavato più che nei 2000 precedenti. E questo è quello che spinge gli ambientalisti a far sentire la loro voce nella lotta contro i cavatori, sviluppando e proponendo progetti alternativi.

Dall’altro lato ci sono le imprese (Confindustria Livorno Massa Carrara) che negli ultimi anni rispondono con i loro bilanci di sostenibilità, sottolineando codici comportamentali, fattori di trasparenza, investimenti in formazione, investimenti in tecnologia diretta a migliorare compatibilità ambientale e sicurezza; ma soprattutto la volontà di recuperare e valorizzare la plurimillenaria cultura identitaria e distintiva del territorio rappresentata dal marmo di Carrara.

E poi c’è la Regione che ha provveduto a varare una legge che disciplina le concessioni degli agri marmiferi, concessioni che vengono rilasciate previa gara ad asta e a cui sono sottoposte anche quelle cave che sono di proprietà privata in forza di uno stravagante editto del 1751. Non che la odierna legge sia meno bizzarra, se si pensa che la concessione può venire prorogata se si rientra in alcuni parametri a premi, ovvero se si creano progetti che abbiano effetti sul territorio o sui cittadini, come per esempio valorizzare la filiera corta nella lavorazione del marmo creando occupazione.

In mezzo ci sta lei, la montagna, che da oltre 2000 anni, in silenzio, continua ad accogliere nel suo ventre, con l’amore che solo una madre può donare, un piccolo nucleo di umanità, i cavatori.

Cosciente della mia impossibilità di risolvere l’eterna questione dell’essere umano, ospite di uno straordinario pianeta che non riesce a fare a meno di spolpare per vivere, o solo per esistere, ho voluto incontrare chi ogni giorno vi si addentra in questo grande ventre, per capirne quali altre ragioni oltre all’ovvio denaro, utile anche quello.

Sono all’interno degli uffici di cava Lazzareschi e tutto mi aspettavo che trovare, dietro una scrivania impolverata, di carbonato di calcio ovviamente, una giovane donna.

Fabiola in cava c’è nata, ha seguito papà Alvise fin da piccola e se all’inizio è stato il senso del dovere a spingerla ad affiancare il padre negli affari poi è sopraggiunta l’attrazione che nel tempo è diventata passione. Una passione per la pietra che non riesce a tenere per sé ma che vuole trasmettere anche agli altri e lo fa realizzando dei corsi di scultura creativa, rivolti non solo a chi si accosta per la prima volta alla nobile arte per un approccio esperienziale, ma anche a chi ha già esperienza e vuole perfezionare la propria competenza o sensibilità artistica. È lei stessa insieme al maestro ad accompagnare i partecipanti in cava offrendo l’occasione ad ognuno di loro di scegliere la pietra su cui poi lavorare.

Ma Fabiola oltre ad avere questo particolare trasporto per la pietra, per gli scenari che la circondano, e per quello che lei definisce senso di ‘titanismo’ che le cave infondono, è pur sempre un imprenditore e quando le chiedo quali siano i rapporti fra e con i dipendenti lei tira fuori parole come fratellanza, equipaggio, codice etico per le assunzioni… parole che mi lasciano perplessa quando le sento pronunciate da un datore di lavoro o comunque da chi sta dietro una scrivania.

La vita nella cava è differente e sono sicura che i cavatori la pensano in modo diverso e sapranno descrivermi la durezza, le difficoltà, le ansie e le paure che si provano quotidianamente.

Mirko il capocava mi accompagna in cima e durante il percorso in fuoristrada si ferma in diversi punti per mostrarmi con grande entusiasmo il panorama, e non nego che lo spettacolo mi crea grande confusione: ho davanti a me qualcosa che per un ambientalista è catastrofico e capisco bene il perché, ma sarei un’ipocrita se nascondessi quanto quel paesaggio distopico, che sembra concepito dalla mente visionaria di Asimov, sia di una bellezza straordinaria.

I cavatori sono al lavoro e sono esattamente come Michelangelo li ha dipinti, forti, statuari e possenti, chissà se anche i modelli michelangioleschi erano perfettamente depilati e vivacemente tatuati.

Francesco è la star di cava Lazzareschi, è talmente abituato all’obiettivo che in modo naturale assume pose plastiche per farsi immortalare. È un divo, del resto. È stato scelto da Andrei Konchalovsky nel film ‘Il furore di Michelangelo’ per interpretare uno dei cavatori con i quali si rapportava il grande artista. E come un divo si abbandona a racconti sulla sua vita in cava, al suo amore per questo mestiere che ha desiderato e voluto ardentemente, al suo amore per Alvise. Ebbene ancora una volta mi scattano le perplessità, un dipendente che esalta le doti del proprio datore di lavoro raccontando di quando all’improvviso arriva in cava chiama a raccolta tutti e se li porta prima a raccogliere funghi nel bosco e poi a casa dove si diletta a cucinare per loro, lo trovo incredibile e se mi aggiungi che la giornata è pagata io penso che sono piombata in un set cinematografico: ‘0ra basta ragazzi abbiamo scherzato e ci siamo divertiti, è ora di tornare al lavoro’. È la voce di Claudia che finalmente arriva a mettere ordine e non solo in cava ma anche nelle idee che mi sono fatta.

Claudia Chiappino è l’ultima grande sorpresa di cava Lazzareschi. Claudia è un ingegnere minerario che qui svolge il ruolo di direttore responsabile di cava: a lei tocca, fra le tante altre mansioni, osservare e far osservare le disposizioni normative e regolamentari in materia di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori. Mi spiega la pericolosità del luogo, di quanto basti poco per farsi male e quanto sia importante la coordinazione, la sintonia, l’affiatamento, l’irrilevanza dei ruoli, il perché qui sono tutti uguali. Ora capisco cosa intendeva Fabiola quando parlava di equipaggio, capisco il senso di fratellanza, e capisco che qui la vita di di ognuno dipende dal suo compagno, esattamente come per un equipaggio che deve affrontare una tempesta.

Capisco tutto ma non capisco che ci fa una donna in un posto come questo e come fa, lei così minuta, a dare ordini a questo manipolo di energumeni. Claudia mi racconta che non ha fatto altro che seguire il suo amore innato per la pietra, per la terra e la montagna, e dopo la laurea in ingegneria mineraria conseguita a Torino e la conseguente sfida ai pregiudizi per il fatto di ricoprire un ruolo considerato maschile si è messa alla ricerca di dirigenti, da lei definiti ‘illuminati’, capaci di vedere in lei il grande valore che oggi le fa coprire il ruolo di direttrice nella ‘cava Lazzareschi’, alla concessione mineraria di zinco e piombo ‘Monica’ di Bergamo, e alla cava di gesso di Montetondo.

Relativamente al rapporto con cavatori e minatori Claudia usa la simpatia che le è innata e il gioco, due armi che spiazzano, e stamattina ne ho potuto constatare l’efficacia quando ha permesso ai ‘suoi uomini’ di mettere da parte gli indumenti e gli accessori protettivi anti-infortunio per lasciarli liberi di mostrare al mio obiettivo i loro corpi scolpiti dal lavoro e farli divertire, ma finito lo shooting e il divertimento si ritorna al rigore di sempre.

Sembrerebbe un atteggiamento molto materno, e non mi stupisce perché la montagna è una grande madre che accoglie nel suo grande ventre i figli, anche quando le fanno del male, e questo Claudia lo sa tanto da definire la cava come la sua vera casa e quando le chiedo se un giorno vi porterebbe sua figlia lei risponde: ‘Se potessi qui ci partorirei’.

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